Cinefilia


"Appunti di Critica Libera" di Gaetano Cazzola

Che rapporto c'è fra il cinema e l'immaginario ? Si può' affermare che il cinema sia il piu' grande influenzatore dell'immaginario di tutti ? Alzi la mano chi - a qualsiasi eta' - non ha nella memoria un film che in qualche modo gli ha creato un immaginario o e' stato guida per il suo immaginario ? Uno degli esempi più eclatante e' quello di Scampia. Dove gli inquirenti hanno scoperto la casa di Sandokan (noto mafioso del napoletano) costruita esattamente come quella di Tony Montana (Al Pacino) nel film "Scarface". Con tanto di doppia scalinata nel salone e statue ai lati. E' chiaro che anche i libri fanno la loro parte e anche il teatro, ma non sono così potenti e coinvolgenti come il cinema. La finzione-reale creata dal cinema e coadiuvata dalla grandezza dello schermo ci entra dentro e ci tocca nel profondo dando voce alle nostre più' intime luci e oscurità', creando, mantenendo e appoggiando certi sogni e immaginazioni. Ma di piu'ancora creando senso e significato a tutto ciò che ci circonda, trasponendo sullo schermo e mettendocelo davanti, così diventiamo spettatori di noi stessi -indirettamente- ma è sempre di noi che si sta' parlando. Quindi senza il cinema ci conosceremo meno. Perche' chi ci parlerebbe cosi tanto di noi senza il cinema ? Il cinema ci da la possibilità' del confronto, attraverso i personaggi che agiscono nello schermo, prendiamo posizione, ci facciamo un'idea o la cambiamo questa idea. Quindi creiamo senso di noi stessi, ci poniamo delle domande e a volte arrivano anche delle risposte. Insomma il cinema ci fornisce degli strumenti per creare senso e significato, che altrimenti sarebbe più difficoltoso trovare. E di sicuro il nostro immaginario sarebbe più' povero e anche la nostra percezione del mondo ne risentirebbe. Ecco che allora entrano il ballo i "critici". Che cosa fa un critico ? Il critico cerca di andare un po' più' a fondo nell'analisi, sviscera la stesura e la realizzazione di un film per cercare di dare dei significati aldilà di una visione più immediata e "superficiale"...

"Intervista pubblicata da Alberto Cassani sulla cinefilia"


Cos’è un “cinefilo? Che cosa lo differenzia da un semplice appassionato di cinema? Entrambi vedono tanti film ma, al di là di questo, traccerei una linea: la cinefilia comporta un interesse attivo nel discorso intorno ai film. Non solo guardare film, dunque, ma anche pensare, parlare e scrivere di film, nelle forme più svariate, non importa quanto standardizzate: sono tutte attività importanti per il cinefilo.Come disse Godard, fare film è già un atto di critica cinematografica.

L’approccio nella scrittura di una recensione filmica (linguaggio, stile, contenuti, ampiezza del testo) destinata al web è diverso da quello scelto per la carta stampata? O dipende prevalentemente dalla figura del recensore (critico professionista, giornalista cinematografico, professore universitario di settore, esperto di cinema non professionista)?
    L’approccio alla scrittura cambia già all’interno della stessa carta stampata, a seconda del tipo di pubblicazione su cui si scrive e di conseguenza del tipo di lettore per cui si scrive, anche quando è la stessa persona a scrivere. Una recensione su SegnoCinema non è paragonabile a una del Corriere della Sera, né concettualmente né dal punto di vista linguistico. Il web porta con sé una problematica inedita: alla totale libertà in quanto a lunghezza dei testi si contrappone il fatto di non scrivere più per il proprio lettore, ma per un lettore che nella maggior parte delle occasioni arriva alla recensione per caso, attraverso i motori di ricerca o i link presenti su altri siti. Questo ha sempre portato chi scrive per internet ad autolimitarsi nella lunghezza degli articoli per paura di far scappare un lettore casuale non troppo interessato all’argomento e per nulla interessato al nome in calce all’articolo, ma ha anche portato a un approccio critico più variegato di quanto ci si sarebbe potuti aspettare inizialmente. Non potendo avere idea di che tipo di lettore si va a incontrare, infatti, si tende a dare alla testata una connotazione più vicina alle preferenze di chi la pensa e la scrive, perché saranno gli argomenti trattati a generare i contatti, non tanto il modo in cui li si tratta (per lo meno non finché la testata non diventa un nome conosciuto, e nel nostro ambiente queste sono ben poche). Nella carta stampata, invece, ci si chiede innanzi tutto cosa può interessare al lettore, e questo condiziona non solo i contenuti ma anche il taglio giornalistico dato a questi contenuti. Questo vuol dire che, rispetto alla carta stampata, sul web è molto più facile che un qualunque tipo di lettore possa trovare il prodotto editoriale che cerca, non solo per una questione di offerta numerica ma proprio per la sua di varietà. Nell’ambito della critica cinematografica, che è già poliedrica di per se stessa, la cosa è forse ancora più evidente che in altri settori: se prendiamo i dieci siti di critica più visitati d’Italia non ce ne sono due che hanno lo stesso approccio, la stessa idea critica alla base. E questa varietà non può essere che un bene.
    A questo discorso si aggiungono tutti quegli appassionati che negli anni Ottanta e Novanta del XX secolo avrebbero dato vita a una fanzine e che oggi invece aprono un blog con irrisoria facilità. La loro scelta non ha nulla a che fare con discorsi e pensieri giornalistici, e il rapporto che loro hanno con i propri lettori è totalmente diverso da quello dei siti veri e propri. In pratica, pur utilizzando lo stesso veicolo dei siti, i blog sono un ambito critico totalmente diverso. Sono come due tipologie diverse di programma televisivo, che hanno in comune solo l’argomento di fondo e il mezzo di comunicazione.

    Perché nella maggior parte delle recensioni sembrerebbe assente il ricorso al linguaggio cinematografico diversamente da quanto accade nei saggi accademici? Tale eventuale scelta è ritenuta dai critici inutile ai fini della recensione? Si pensa che il lettore sia disinteressato all’analisi filmica o si ritiene che non abbia le competenze adatte per comprenderla? A questo proposito, non dovrebbe essere anche la critica stessa a formare il proprio pubblico?
    Credo che questo tipo di funzione educativa, la critica cinematografica italiana non l’abbia mai avuta. Ha avuto invece molto a lungo una funzione educativa del gusto cinematografico, ha cercato – e per molti anni è riuscita – a portare il pubblico a fare scelte cinematografiche educate, ma non ha mai cercato di educare il lettore al linguaggio cinematografico. E forse è stato proprio per questo che a un certo punto ha cominciato a perdere di autorevolezza: non avendo mai realmente spiegato ai lettori perché valeva la pena di fare certe scelte, col tempo i lettori hanno iniziato a dubitare di ciò che leggevano, e di riflesso a dubitare della competenza di chi scriveva. Temo che ormai questo processo non lo si possa più invertire: oggi il critico cinematografico è tenuto in alta considerazione solo dai cinefili, che però spesso hanno fatto lo stesso percorso di studi dei critici e quindi a loro riconoscono in più rispetto a se stessi solo l’acume critico.
    La mancanza praticamente totale di riferimenti precisi al linguaggio cinematografico nelle recensioni attuali, anche i più semplici, è una precisa scelta giornalista (non dei critici: dei giornalisti). Ritenendo, probabilmente a ragione, che il lettore non li conosca e non volendo dare al critico lo spazio sufficiente per spiegarli, si preferisce bandirli completamente. Come ho detto, forse la situazione è irrecuperabile, ma di certo non si fa nulla per provare a recuperarla. Anzi: dal punto di vista giornalistico si pensa che al lettore non interessi davvero la critica ma il “colore”, quindi meno si parla di cinema e più di ciò che sta attorno al cinema, meglio è.
    Io stesso riprendo i collaboratori di CineFile quando fanno discorsi troppo tecnici, e io stesso cerco di usare terminologia tecnica solo in modo che ne sia chiaro il significato anche a chi non lo conosce, perché sono perfettamente conscio che al 90% dei miei lettori certi termini sono totalmente sconosciuti. Quindi mi guardo bene dal fare analisi filmiche che al lettore medio potrebbero suonare eccessivamente auliche. E’ una scelta che abbiamo fatto consciamente, su CineFile, e in misura comunque molto meno rigida rispetto alla carta stampata, ma per fortuna il web è (quasi) infinito e ci sono siti che hanno preferito fare la scelta opposta, come Gli Spietati o FilmIdee, e che riscuotono ugualmente un buon successo.

    Esistono dei parametri per accertare l’autorevolezza di un critico? Se sì, quali?
    Io ho frequentato per anni un newsgroup italiano dedicato al cinema, it.arti.cinema, frequentato da appassionati, critici e addetti ai lavori provenienti da tutta Italia. Il modo migliore per scatenare un’accesa discussione tra tutti gli utenti era di chiedere quando un film potesse definirsi “bello”. C’erano, ci sono sempre state e probabilmente sempre ci saranno – non solo in ambito cinematografico – due fazioni: chi ritiene che il bello sia oggettivo e chi invece pensa che il concetto di bellezza sia assolutamente soggettivo. Chiedere come si fa ad accertare l’autorevolezza di un critico è come chiedere quando un film si può definire “bello”…

    Allora su quali basi si fonda la disputa tra critici di professione e cineblogger e perché quest’ultimi vengono accusati di amatorialità?
    Credo che questa sia una questione totalmente diversa. Conosco alcuni critici di lungo corso che ritengono che una persona si possa definire un critico solamente nel momento in cui viene pagata per fare critica, di conseguenza chiunque fa critica cinematografica non per lavoro ma per diletto non è un professionista. E in effetti è così, perché per definizione è un dilettante. La cosa cambia quando al concetto di dilettantismo si dà una connotazione negativa, svilente, che io non condivido affatto ma che nella mente di questi colleghi non è limitata ai cineblogger. Anche perché, francamente, dubito che una Natalia Aspesi sappia cos’è un cineblogger. Può essere interessante notare come anche in ambito letterario si ritiene che chi pubblica senza essere pagato da un editore (peggio ancora chi paga per pubblicare) non abbia il diritto di definirsi uno scrittore, e che in entrambi i campi la disistima sia reciproca. La cosa curiosa, però, è che alcuni critici professionisti con i quali ho avuto modo di parlare del nostro lavoro non si definiscono dei critici. Il che mi porta a pensare che sia proprio la figura del critico, a non essere chiara. Neanche ai critici stessi.
    Se vogliamo però limitare il discorso all’idea che nell’ambito critico si ha dei blog di cinema, bisogna fare una premessa: nell’ambiente del cinema italiano la critica web gode di una considerazione molto ma molto peggiore di quella cartacea. A loro volta, i blog sono visti molto ma molto peggio dei siti. Questo succede innanzi tutto per ignoranza, ma dipende direttamente dal modo in cui i blog funzionano e vengono usati. Un blog può essere aperto da chiunque, non ha un lavoro redazionale alle spalle ed è quasi sempre l’espressione di una sola mente pensante, ogni tanto due, quasi mai tre. Questo agli occhi di molti dà probabilmente l’idea che non ci sia un lavoro “di concetto” prima della pubblicazione, perché non c’è un confronto con altre persone su cosa pubblicare e cosa no e sul taglio da dare allo scritto. E a dir la verità quasi sempre è così, ma questo non vuol dire che una cosa pubblicata su un blog sia necessariamente di qualità inferiore, o che non abbia ragione di esistere, né tantomeno che l’autore non ci abbia riflettuto a lungo prima di scriverla. In più, come ho detto, il rapporto che si crea tra il blogger e i suoi lettori è molto diverso da quello del giornalista della carta stampata o anche solo dei siti internet più tradizionali, e questo probabilmente dà l’impressione che il blog sia solo un ricettacolo di “chiacchiericcio” attorno al cinema. Anche qui, spesso nei commenti è davvero così, ma questo non vuol dire che nel post non si sia portato avanti un discorso critico che merita dignità, né che su determinati argomenti non possano uscire spunti critici interessanti dallo scambio di idee tra il critico e i suoi lettori. Infine, molto spesso il blogger parte dalla propria esperienza personale per poi sfociare solo in un secondo momento nel discorso critico, e questo porta molti a pensare che il blogger parli di se stesso invece che di cinema. Anche questo è in effetti spesso vero, ma ci si dimentica che uno dei migliori critici cinematografici del mondo, Roger Ebert, ha fatto di questa tecnica il tratto distintivo della sua scrittura, sin da quando internet neanche esisteva. Il concetto di partire da un aneddoto personale magari anche slegato dal film serve proprio per far capire al lettore quanto l’esperienza di visione di quel certo film può assomigliare a quella che avrebbe lui se andasse a vederlo, e di conseguenza è direttamente legata alla capacità di convinzione di una recensione che deve portare il lettore a decidere se vedere un film o meno. È probabilmente una delle tecniche di scrittura del giornalismo d’opinione più difficili in assoluto da utilizzare con efficacia – come d’altra parte lo è l’uso della prima persona singolare quando si scrive in italiano – e quindi sui blog (dove probabilmente la si usa inconsapevolmente, solo per annullare la distanza tra chi scrive e chi legge, rendendo così la comunicazione orizzontale) i fallimenti sono molto più frequenti dei successi, ma non per questo il tentativo non merita a prescindere considerazione. Invece, visto che in realtà quasi nessuno dei critici cinematografici di una certa età frequenta i blog, si fermano tutti alle apparenze e buttano il bambino insieme all’acqua sporca.
    Nel film State of Play Russel Crowe è un giornalista che si trova a collaborare per un’inchiesta con una giovane blogger che lavora per il suo stesso giornale. Una delle prime cose che le dice è «questa non è una faccenda da trattare seduta davanti alla tastiera, qui non c’è posto per opinioni, aneddoti e citazioni: qui dobbiamo sporcarci le mani per poter capire qual è la verità e raccontarla ai nostri lettori così com’è.» Alla fine lei decide di pubblicare il risultato del loro lavoro sul giornale del mattino invece che sul blog perché «certe cose meritano l’odore della carta e lo sporco dell’inchiostro.» Sono sicuro che molti giornalisti della vecchia guardia abbiano interpretato la parabola di questo film come una dichiarazione di superiorità della carta stampata rispetto a internet, quando in realtà il messaggio è proprio l’opposto: non ha importanza se un giornalista lavora per la carta stampata o per internet, né quanti anni ha; l’importante è che sia bravo e faccia il suo lavoro per bene.

    Come si può trasformare il lavoro del critico cinematografico online in una vera e propria professione visto che la maggior parte dei collaboratori sembrerebbe non percepire compensi? Esistono redazioni online composte di soli professionisti?
    Credo che in Italia non siano più di cinque i siti di critica cinematografica che possono permettersi di pagare i collaboratori, e dubito che anche uno solo di questi cinque permetta ai suoi critici di mantenersi solo con quella collaborazione. Anzi, in realtà ci sono diversi critici anche affermati che hanno bisogno di più collaborazioni sulla carta stampata per riuscire a guadagnare a sufficienza per vivere. Questo perché la critica cinematografica non vende (anche per colpa della critica stessa: come si può pensare che vendano Ciak e l’impresentabile versione italiana di Empire?), e quindi di soldi ne girano ben pochi. Per guadagnare con la critica online si può provare a entrare nella redazione di qualche portale multitematico (ma gli inizi sono quasi sempre gratuiti) e farsi spazio nel canale dedicato al cinema, sempre ammesso che lì si riesca a fare critica e non solo colore. Ma in generale guadagnare con la critica è davvero difficile. Alberto Pezzotta consiglierebbe di cambiare idea e andare a fare un altro mestiere, io dico invece di guardare tanti film, studiare ciò che più interessa e prepararsi a fare della critica cinematografica un secondo lavoro da affiancare a quello che ci permetterà di pagare le bollette. Ci vuole pazienza e convinzione, e ovviamente un po’ di capacità non guasta.