Profondità


dal sito WAV



Università degli Studi di Siena

alessandrocecchi@tin.it

Diegetico vs. extradiegetico: 
revisione critica di un’opposizione concettuale 
in vista di una teoria dell’audiovisione.

Il concetto di diegesi e la relativa distinzione diegetico/extradiegetico hanno assunto una posizione talmente centrale entro i discorsi sul cinema narrativo da indurre alla supposizione di una loro intrinseca validità. Molti studiosi sottoscriverebbero in pieno l’idea espressa con chiarezza da Robynn J. Stilwell che il concetto di diegesi sia fondato su configurazioni oggettive della realtà filmica e che la distinzione diegetico/extradiegetico corrisponda a dati percettivi immediati (Stilwell 2007, p. 184). Se si accetta questa posizione, si rinuncia a un chiarimento sistematico del concetto che appare invece particolarmente urgente appena se ne analizzano le applicazioni. Le considerazioni che seguono offrono un tentativo di riflessione filosofica sul concetto di diegesi articolato in due fasi: nella prima vengono resi espliciti presupposti e implicazioni del concetto secondo il suo uso consueto, in modo da mettere in evidenza gli aspetti problematici; nella seconda viene elaborata una strategia di revisione fondata su una formulazione coerente ma in gran parte ancora ipotetica della teoria dell’audiovisione.
1. Premesse e implicazioni teoriche di un concetto fondamentale
La storia del concetto di diegesi inizia da una proposta di Gilbert Cohen-Séat, prontamente accolta da Etienne Souriau verso la fine degli anni Quaranta e codificata pochi anni dopo (Souriau 1953, p. 7). Il concetto viene poi utilizzato massicciamente da Gérard Genette, che introduce inizialmente una parziale ridefinizione (Genette 1969, p. 211) e poi asserisce con enfasi la sua completa indipendenza dal termine greco diegesis secondo il senso che questo ha in Platone (Genette [1983] 1987, p. 12). L’osservazione viene ripresa da Paul Ricoeur, il quale precisa che tanto l’uso platonico del termine quanto quello – già molto diverso – che ne fa Aristotele rendono di fatto impossibile una sovrapposizione anche solo parziale con il concetto moderno (Ricoeur [1984] 1987, p. 135). Di fronte alla solidità di tali argomentazioni le discussioni che pretendono di chiarire il senso del concetto a partire dal termine greco e dalla pretesa antitesi mimesis/diegesis (Taylor 2007) possono essere trascurate.
Neanche il modo in cui Claudia Gorbman ricostruisce la storia del concetto (Gorbman 1980, p. 194) è del tutto convincente: la relazione tra fabula e sjuzet (intreccio) di cui discettavano i formalisti russi negli anni Venti – intesa per lo più come relazione tra strutturazione tipologica astratta e articolazione concreta della narrazione – non può essere considerata come una forma primordiale della relazione diegesi/narrazione discussa dalla critica cinematografica francese a partire dagli anni Cinquanta. Peraltro Gorbman non chiarisce sufficientemente il nesso tra le due coppie di concetti, né lo sostanzia con opportuni riferimenti bibliografici, mentre al contrario chi dimostra una conoscenza approfondita delle teorie narratologiche dei formalisti russi (Bordwell 1985) evita attentamente di sovrapporre i due ambiti concettuali. Alla studiosa va invece riconosciuto il merito di avere illuminato compiutamente il concetto in base alle definizioni di Souriau e Genette: con Souriau ella inserisce nell’orizzonte diegetico «tutto ciò che, “per inferenza”, appartiene alla storia narrata, al mondo supposto o proposto dalla finzione del film» (Gorbman 1980, p. 195), mentre con Genette definisce diegesi «il mondo spazio-temporale delle azioni e dei personaggi implicato a livello narrativo» (ibidem). Le precisazioni addotte da Gorbman non sono irrilevanti ai fini della discussione: in particolare il ruolo dell’inferenza – termine da lei introdotto con la traduzione inglese («by inference») dell’espressione originale di Souriau («dans l’intelligibilité») – risulta essenziale se vogliamo chiarire la stretta connessione tra la diegesi e la posizione ontologica del mondo della vicenda narrata all’interno dell’orizzonte finzionale del film.
Riflettendo sulle definizioni citate, si può giungere alla conclusione che il concetto di diegesi si fonda su una concezione raffigurativa del linguaggio filmico. Questa può essere illustrata in riferimento al Tractatus logico-philosophicus, lo scritto in cui Ludwig Wittgenstein espone la sua prima teoria del linguaggio proposizionale. Qui il filosofo spiega che le proposizioni ci mettono di fronte a «fatti», intesi come «il sussistere di stati di cose» (Wittgenstein [1922] 1964, §2), nella misura in cui ne offrono una «immagine» (ivi, §2.1) ovvero un «modello» (ivi, §2.12). La teoria raffigurativa si fonda sull’osservazione che l’immagine di un fatto è a sua volta un fatto (ivi, §2.141). Ciò che permette a un fatto di raffigurare un altro fatto è la «forma di raffigurazione» che essi hanno in comune (ivi, §2.17), definita anche «forma logica» (ivi, §2.18). Che un’immagine raffiguri o meno un fatto del mondo reale non dipende dalle caratteristiche intrinseche dell’immagine, bensì dalla corrispondenza tra l’immagine e uno stato di cose effettivo. In senso proprio l’immagine logica rappresenta dunque «una possibilità del sussistere e non sussistere di stati di cose» (ivi, §2.201). Ciò che l’immagine rappresenta, il suo «senso [Sinn]» (ivi, §2.221), è solo «una possibile situazione» (ivi, §2.202). In altre parole: essa può concordare o meno con il mondo reale a seconda che sia «corretta o scorretta, vera o falsa» (ivi, §2.21). La non verità, cioè la non concordanza della situazione rappresentata con uno stato di cose effettivo, non implica il venir meno del senso della proposizione, cioè della raffigurazione, ma solo la constatazione della mancata corrispondenza tra la situazione raffigurata e un fatto realmente accaduto (ivi, §2.222). Tale concezione – trascurando le ragioni della particolare concezione wittgensteiniana del rapporto tra senso (Sinn) e significato (Bedeutung), per cui quest’ultimo è limitato al rapporto tra nome e oggetto, mentre solo il primo si riferisce alla raffigurazione di uno stato di cose (ivi, §3.3) – è facilmente trasferibile al linguaggio filmico. Lo stesso Ricoeur, che pure muove da una diversa prospettiva, sottolinea che Souriau attraverso il concetto di diegesi intendeva «opporre il luogo del significato filmico all’universo dello schermo come luogo del significante» (Ricoeur [1984] 1987, p. 135). Ciò conferma la connessione tra il concetto di diegesi e una concezione proposizionale del linguaggio filmico, la quale stabilisce implicitamente una opposizione ontologica.
Il concetto di diegesi si collega allo stesso tempo a una concezione realista (nel senso filosofico) dell’inferenza o induzione. La sua premessa è che l’induzione logica sia in grado di garantire una conoscenza più certa e completa di quella che deriva della percezione sensibile. In relazione alla realtà filmica ciò si traduce nella convinzione – implicita o esplicita – che l’atto di inferenza ci ponga di fronte alla conoscenza di un mondo oggettivo e coerente (la diegesi), rispetto a cui ciò che ci viene offerto mediante lo schermo (la narrazione filmica) rappresenta un taglio particolare, un punto di vista soggettivo e parziale. Dato il contesto filmico, non si tratta naturalmente di asserire la realtà fisica del mondo inferito, bensì solo di affermarne il primato ontologico rispetto alla realtà rappresentata sullo schermo. In altre parole: il concetto di diegesi contiene un momento ‘tetico’, nel senso che istituisce in modo implicito una ontologia interna alla rappresentazione finzionale.

Per restare coerente con queste premesse la teoria dovrebbe consentire di mantenere salda la distinzione diegetico/narrativo: la diegesi, intesa come realtà stabilita per inferenza a partire dai dati della percezione, dovrebbe infatti restare separata dalla narrazione intesa come il modo in cui tale realtà viene presentata sullo schermo; il contenuto oggettivo della narrazione (il raffigurato, il significato) dovrebbe inoltre mantenere un primato rispetto alle modalità della narrazione (la raffigurazione, il significante), del tutto secondarie e soggettive. Questa distinzione, che deriva direttamente dalla concezione proposizionale del linguaggio filmico, si collega a una interpretazione topologica del rapporto diegetico/extradiegetico, che suppone una contrapposizione di luoghi definiti (Ricoeur [1984] 1987, p. 135). Una teorizzazione coerente del concetto dovrebbe mantenere con chiarezza la separazione tra le due dislocazioni. Inoltre la topologia di ogni possibile sequenza filmica rispetto alla diegesi dovrebbe essere tendenzialmente definibile in maniera univoca: se la diegesi è un momento oggettivo, un luogo definito della realtà filmica, gli aspetti diegetici devono restare di principio distinguibili dagli aspetti extradiegetici. Ogni aspetto di ogni singola sequenza narrativa può dunque trovarsi, in un dato istante, da un solo lato della soglia che separa due realtà complementari ma ontologicamente distinte. Non possono darsi momenti di indecisione, ma unicamente momenti di discontinuità o di passaggio. Ogni singolo elemento può naturalmente mutare la sua posizione rispetto alla diegesi, seguendo, magari, traiettorie assai complesse; ma l’istante del passaggio deve essere sempre individuabile o ipotizzabile.
Tali implicazioni evidenziano una serie di problemi di difficile risoluzione. Per quanto riguarda la distinzione diegetico/narrativo, va osservato che la distinguibilità tra contenuto oggettivo e modalità soggettive della narrazione non può essere mantenuta in maniera coerente. Il caso della realtà finzionale suggerisce piuttosto una identificazione dei due momenti. Perfino in un film eminentemente storico e narrativo come Barry Lyndon (1975) di Stanley Kubrick è chiaro che la vicenda narrata può essere unicamente funzione della narrazione, o di una delle narrazioni effettive: quella in prima persona del protagonista del romanzo di William Makepeace Thackeray da cui il film prende le mosse, quella in terza persona della voce narrante nel film o ancora quella messa in scena dalle immagini, dai dialoghi e dalle musiche del film. Nulla lascia pensare a una entità oggettiva esistente in qualche luogo separato dalla narrazione e nominata ‘mondo di Barry Lyndon’ o ‘vicenda di Barry Lyndon’. Ciò che abbiamo veramente e che si dà in modo primario è solo la narrazione, mentre invece il contenuto narrato – che, appunto, è frutto di inferenza – si rivela essere del tutto secondario, oltre a variare a ogni lettura. Affermare il contrario significherebbe presupporre la possibilità di immaginare un contenuto oggettivo, cioè oggettivamente descritto, rispetto al quale ogni possibile narrazione umana non sarebbe che uno dei tanti modi soggettivi di narrare quella stessa realtà. Ciò è evidentemente insostenibile: i contenuti narrati non esistono se non nella loro peculiarità, ovvero nel loro essere mediati da punti di vista narrativi. Il punto di vista non è una realtà accidentale del contenuto della narrazione, ma al contrario non si dà narrazione senza punto di vista. Se dunque la narrazione è una costruzione soggettiva, la diegesi non lo è di meno, anzi lo è in ragione esponenziale, in quanto si tratta del risultato di un atto (soggettivo) di inferenza che muove da una costruzione già di per sé mediata da un punto di vista soggettivo.
Anche il mantenimento della distinzione diegetico/extradiegetico in quanto dato topologico non è privo di difficoltà. In primo luogo i casi di indecidibilità rispetto al mondo della vicenda narrata sono particolarmente frequenti, soprattutto quando si introduce la questione del sonoro e in particolare della musica diegetica o extradiegetica. Questo avviene in parte perché la musica non si sottomette facilmente alla concezione proposizionale del linguaggio filmico: la musica non raffigura, non offre immagini o modelli di situazioni; in essa significante e significato sono tendenzialmente sovrapponibili, se non del tutto indistinguibili. Nel caso della musica pertanto la questione del rapporto diegetico/extradiegetico finisce per ridursi alla individuazione della fonte e al chiarimento della sua dislocazione; un problema certo interessante, ma che non basta a illuminare il senso – contestuale – della presenza della musica entro il nesso audiovisivo. A ciò si aggiungono altre difficoltà. Come è stato più volte rilevato dagli stessi sostenitori della oggettività della diegesi (Gorbman 1980; Percheron 1980; Bordwell 1985; Johnson 1989; Brown 1994), la funzione della musica è largamente indipendente dalla sua topologia. Che sia diegetica o meno, la funzione della musica e il suo stesso senso dipendono principalmente dal suo inserirsi a livello narrativo entro la struttura audiovisiva. Lo stesso dato musicale può rivestire funzioni diverse a seconda della prospettiva considerata: quella dello spettatore o quella dei diversi personaggi (per quanto possiamo inferire) implicati nella vicenda, che rappresentano altrettanti punti di vista (Norden 2007). È tuttavia soprattutto il fatto che gli studiosi collochino così frequentemente la musica in zone ambigue della topologia a introdurre nella teoria della diegesi un momento di incoerenza ineludibile. L’osservazione secondo cui la musica è in grado di mutare con estrema libertà la sua posizione rispetto alla diegesi (Gorbman 1980, p. 196) non dovrebbe condurre a quelle difficoltà che invece assillano costantemente l’analisi, costretta a postulare ampie zone di indecisione e indecidibilità tra diegetico ed extradiegetico. L’analisi è per definizione fondata sulla riduzione teorica della complessità; se la decisione in merito alla topologia della musica fosse semplice frutto di osservazione analitica, il passaggio sarebbe costantemente descrivibile senza difficoltà in termini di diegesi. La difficoltà viene in genere misconosciuta, cioè attribuita alle peculiarità di una determinata situazione filmica. I casi in questione sono però così frequenti e significativi da indurci a riflettere sulla adeguatezza dei concetti di base. Anche la proposta di mantenere saldo il confine diegetico/extradiegetico rendendolo allo stesso tempo più fluido e azionando la leva teorica del carattere processuale del passaggio da uno stato all’altro (Stilwell 2007, pp. 184-185) sembra aggirare l’effettiva concet tualizzazione della diegesi puntando l’attenzione sulla questione della continuità temporale: si suggerisce un abbandono, in sede di analisi, della concezione discreta della temporalità, che invece è fondamentale per il concetto di diegesi; questo implica la posizione di un mondo coerente con parametri logici e spazio-temporali i quali implicano una articolazione per eventi definiti e puntuali; inoltre il nesso audiovisivo consente sempre una osservazione analitica discreta.
In generale le zone di indeterminazione topologica – per la cui designazione è attestato perfino un termine quale «transdiegetico» (Taylor 2007) – difficilmente possono essere conciliate con la prospettiva della teoria raffigurativa presupposta dal concetto di diegesi, che separa in senso ontologico la raffigurazione (il significante) dal raffigurato (il significato), consentendo la netta separazione tra diegetico ed extradiegetico. Postulando una topologia incerta non si rafforza dialetticamente la differenza tra i due luoghi – come fa invece l’enfasi sul passaggio del confine (Stilwell 2007, p. 184) – bensì si mette in dubbio l’utilità della distinzione tra posizioni per definizione antitetiche anche se complementari. Invece il tentativo di relativizzare la centralità analitica della distinzione diegetico/extradiegetico attraverso il suo inserimento entro una complessa rete di opposizioni o relazioni concettuali ha il pregio di reinterpretare situazioni filmiche spesso considerate topologicamente ambigue come frutto di strategie fondate sulla possibilità di articolare liberamente sul piano narrativo la relazione tra elementi del sonoro la cui posizione rispetto alla diegesi risulta invece di per sé chiara (Smith 2009). In questo senso la relativizzazione della distinzione conduce a un tempo alla invocazione di un suo utilizzo più attento.


2. Revisione del concetto e teoria dell’audiovisione
I problemi che emergono in relazione al concetto di diegesi e alla relativa distinzione derivano direttamente dai presupposti filosofici che abbiamo esplicitato. Trattandosi di un concetto e di una distinzione centrali per i discorsi sul cinema, occorre muoversi con una certa cautela. A proporre una semplice liquidazione del concetto sono generalmente i pratici del cinema, alcuni dei quali affermano la completa inutilità della coppia terminologica oppositiva diegetico/extradiegetico (Thom 2007), mossi da un sospetto pregiudiziale nei confronti dell’analisi e della teoria in quanto tali. Questo tipo di atteggiamento non giova certo alla riflessione sul concetto. Il fatto che nella pratica il concetto possa essere facilmente aggirato non implica peraltro una sua assoluta mancanza di validità. La critica deve semmai indurre a una riflessione sui limiti del suo utilizzo, la quale a sua volta serve a definire meglio i suoi ambiti di applicabilità. Più ancora, tale riflessione può offrire l’occasione per tentare una teorizzazione alternativa delle basi della disciplina.
Un punto di riferimento in tal senso può essere individuato nel concetto di audiovisione proposto da Michel Chion ([1990] 2001), di cui possiamo cercare di mettere meglio in luce i fondamenti filosofici. In una sua ipotetica formulazione, una teoria dell’audiovisione del tutto conseguente dovrebbe dotarsi di un impianto concettuale costruttivistico, le cui basi possono essere dedotte, ad esempio, dalla riflessione filosofica di Nelson Goodman ([1968] 1976; [1978] 2008). Una teoria di questo tipo dovrebbe innanzitutto mettere in discussione l’atteg giamento tetico, ponendo al centro la narrazione audiovisiva in quanto costruzione primaria. Da questo punto di vista la diegesi potrebbe mantenere alcune delle sue prerogative ma dovrebbe accontentarsi di uno statuto ontologico meno pretenzioso, coerente con la sua condizione di costruzione secondaria; la diegesi risulta infatti fondata su un atto di inferenza che non può pretendere ad alcuna forma di oggettività; si tratta appunto di un atto soggettivo, dunque semplicemente ipotetico. Questo atteggiamento teorico non risulta peraltro estraneo agli studiosi che fanno uso del concetto nel senso consueto. L’indecisione riguardo alla posizione di determinati elementi della audiovisione – particolarmente del sonoro – molto spesso nasconde un passaggio arbitrario da un atteggiamento tetico a uno prevalentemente costruttivista. L’ade sione costante al modello costruttivista supererebbe probabilmente buona parte delle difficoltà connesse con la teorizzazione della diegesi. Ne conseguirebbe un ri dimensionamento del concetto di diegesi e della distinzione diegetico/extra diegetico: da concetti fondamentali dovrebbero mutarsi consapevolmente in strumenti di lavoro, dunque in costrutti teorici negoziabili volta per volta in modo empirico. In questa direzione si sono mossi recentemente due studiosi, che hanno focalizzato l’attenzione sulla collocazione della distinzione diegetico/extradiegetico entro i modelli teorici e analitici da loro costruiti (Smith 2009; Neumeyer 2009).
Dal punto di vista della teoria dell’audiovisione la distinzione diegetico/extra diegetico dovrebbe rinunciare alla sua valenza topologica; essa dovrebbe essere pertanto riformulata in senso funzionale. Porsi il problema della distinzione tra ciò che è diegetico e ciò che è extradiegetico significa insomma astrarre dalla configurazione audiovisiva come costruzione primaria, elaborare un modello teorico il cui ambito di applicabilità è limitato (coglie alcune relazioni nello stesso momento in cui ne nasconde altre) e rivolgere consapevolmente l’attenzione analitica a una costruzione secondaria fondata su un atto di inferenza. In altre parole: tutte le affermazioni in merito alla significatività della distinzione devono essere contestualizzate entro un discorso che sappia rendere esplicite le condizioni di applicabilità del concetto. Peraltro dal punto di vista della teoria dell’audiovisione gli aspetti diegetici e quelli extradiegetici non sono affatto distinguibili a livello ontologico, bensì cooperano alla narrazione audiovisiva, entro la quale interagiscono costantemente. In ogni caso il momento costruttivo deve risultare primario rispetto a quello raffigurativo, che è un aspetto derivato. Il fatto che in molti casi (anche se non sempre) il passaggio del confine risulti significativo (Stilwell 2007, p. 186) dipende strettamente dalla costruzione teorica applicata alla particolare situazione audiovisiva, e non dalla pretesa oggettività percettiva della soglia diegetico/extradiegetico. Trarne un concetto di diegesi valido universalmente significa contrabbandare una inferenza meramente ipotetica per conoscenza oggettiva di una realtà di fatto.
La narrazione audiovisiva è infine l’unico momento in cui il sonoro può emergere pienamente nel suo valore estetico e costruttivo. Nella scena più celebre di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock, “The Murder”, lo sguardo analitico dovrebbe essere rivolto non al contenuto raffigurato, bensì in primo luogo alla costruzione della sequenza audio visiva intesa come narrazione filmica, in cui rientra a pieno titolo la musica di Bernard Herr mann; una musica chiaramente extradiegetica rispetto ai suoni diegetici. Se priviamo la sequenza del sonoro, le immagini rivelano tutta la loro insufficienza diegetica rispetto allo choc audiovisivo della sequenza non schermata: il mi bemolle stridulo dei violini – che nell’arco di otto battute, con il concorso di tutti gli archi, si organizza in un cluster sui successivi tre gradi della scala cromatica dislocato su quattro ottave – risulta sincronizzato perfettamente con l’apertura della tenda per mano del killer; e proprio dal suo stridulo rumore metallico, udito appena prima, quando la vittima aveva chiuso la tenda, trae lo spunto timbrico. I clusters delle successive otto battute, resi ancora più dissonanti da rapidi glissando ascendenti in tutte le parti, risultano non solo narrativamente, ma anche diegeticamente più convincenti della inquadratura delle coltel late, la cui successione è astratta, depurata dal potenziale lesivo dei colpi, che è stato in un certo senso assorbito proprio dalla musica extradiegetica; e questo nonostante l’assenza di una sincronizzazione stretta. La musica, per quanto sia chiara la sua posizione rispetto alla diegesi, non esaurisce in questo la sua funzione; al contrario essa determina l’audiovisione proprio nella sua capacità raffigurativa, dunque influisce sulla possibilità stessa di inferire una diegesi, cui naturalmente collaborano in egual misura le urla della donna, il rumore dell’acqua che scorre, lo strappo metallico della tenda e la caduta del corpo agonizzante. Il senso stesso dei suoni diegetici viene riconfigurato nella interazione con la musica extradiegetica. Risulta dunque evidente che la distinzione diege­tico/extradiegetico, dal punto di vista narrativo, ha una funzione del tutto marginale rispetto alla sequenza in questione. Noi facciamo esperienza della soglia nella stretta misura in cui ne constatiamo la secondarietà dal punto di vista dell’esperienza estetica del film, che è esperienza dell’audiovisione.


Bibliografia
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Schede dei film
HITCHCOCK ALFRED, PSYCHO (USA 1960, 109’)
Soggetto: R. Bloch (romanzo) – Sceneggiatura: J. Stefano – Montaggio: G. Tomasini – Fotografia: J. L. Russell – Musica: B. Herrmann – Sonoro: W. Russell, W. O. Watson – Effetti speciali: C. Champagne – Scenografia: R. Clatworthy, J. Hurley – Produttori: A. Hitchcock, Shamley Productions – Direttore di produzione: L. Leary – Cast: J. Leigh, A. Perkins, V. Miles, J. Gavin, M. Balsam, J. McIntire, S. Oakland, V. Taylor, F. Albertson, L. Tuttle, P. Hitchcock, J. Anderson, M. Mills.


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